L’ex portatore porta a porta di giornali, divenuto ciclista nonché Campione del Mondo in carica, il belga Freddy Maertens, definito il “nuovo cannibale”, portò all’edizione ’77, la prima vittoria di un corridore in Maglia Iridata. Vinse in volata, ma dominò la gara. Troppo più forte di tutti, quel giorno.Dopo la partenza in 141, Maertens cominciò ad allungare quando la corsa affrontò per la prima volta il Teistico, poi si guardò intorno per controllare chi aveva già il flato corto (e furono parecchi). Poi quando provarono ad andarsene Panizza (Scic) e Vandi (Magniflex), anziché scomodarsi personalmente, inviò il mandato allo scuduero dalla pedalata sgangherata Pollentier, poi quando su un’azione di Gialdini (Magniflex) si formò al comando un folto gruppetto, entrò in azione giocando a mo di gatto col topo fino alla volata decisiva e qui, sia chiaro, nonostante il già fortissimo ventenne Giuseppe Saronni (Scic) vinse abbastanza facilmente.
Sul vincitore. Nato a Nieuwpoort (Belgio) il 13 febbraio 1952. Alto 1,72 m. per 69 kg. Professionista dal 1972 al 1987, con 221 vittorie su strada. Nei primissimi anni settanta, il Belgio, nonostante la bella generazione di campioni alla corte dall’imperiosa stella di Eddy Merckx, cercava fra i dilettanti un tipo in grado di infastidire “il cannibale” e rinverdire ulteriormente i fasti di un ciclismo che, in quel momento, era, per buona pace degli italiani, il migliore del mondo. Ricordo le letture sulle dichiarazioni dei commentatori fiamminghi e lo studio sugli ordini d’arrivo, allora tanto presenti sui giornali, nonché le visioni televisive che, soprattutto sui mondiali,
non erano certo inferiori a quelle di oggi. Aldilà del letto, soprattutto l’osservazione video, portò le mie attenzioni di autentico assetato di notizie, su due dilettanti delle Fiandre, davvero più che interessanti: Ludo Van der Linden e Freddy Maertens. Il primo, di un anno più anziano, giunse secondo nella prova in linea ai mondiali di Leicester nel ’70 e vinse l’oro nella “100 km a squadre” l’anno successivo a Mendrisio. Il secondo, diede spettacolo nella prova iridata svizzera, giungendo al posto d’onore dietro la meteora francese Regis Ovion, ed anche alle Olimpiadi di Monaco ’72, pur non arrivando a medaglia, fu molto bravo. A quei tempi, spinto dalla gioventù, feci una scommessa con mio fratello, convinto com’ero che da quei due, sarebbe uscito l’avversario principale, o l’erede, di Merckx. Bèh, Van der Linden passò prof prima dei Giochi, proprio nella Molteni di Eddy, ma a parte quattro successi minori, pagò gli sforzi sostenuti in giovane età nella massacrante cronosquadre (quante vittime ha fatto questa prova!) e si lasciò trasportare in una carriera anonima e deludente, prima che un tremendo destino se lo portasse via a soli 32 anni, nel 1983. Freddy Maertens, invece, mi diede a lungo la certezza di aver visto giusto, ed ancora oggi, pur dovendo constatare che non è diventato un Merckx, e nemmeno una copia vicina di questi, resto della convinzione che non fosse inferiore a nessuno dei corridori in voga negli anni settanta e primissimi anni ottanta, escluso ovviamente Eddy e, limitatamente alle corse a tappe, Hinault. Solo i campioni con la maiuscola, nella stagione del debutto, a soli 21 anni, vincono quindici corse, fra le quali la Quattro Giorni di Dunkerque, i Gran Premi della Scheda, Jef Scherens, l’Escaut, la Fleche de Leeuw St Pierre, si piazzano secondi nel Giro delle Fiandre, quinti nella Parigi-Roubaix e….perdono la maglia iridata per venti centimetri. Già, quel mondiale di Barcellona ’73, meriterebbe un racconto di pagine e pagine. Resta però la constatazione, senza essere quei nazionalisti che gli italiani sanno essere solo nello sport, che Maertens fece perdere l’iride a Merckx, andandolo a prendere in salita con Gimondi e Ocana staccati, mentre Eddy si prese un’immediata rivincita, giocandolo nello sprint decisivo a vantaggio di chi gli stava meglio in maglia arcobaleno: Felice Gimondi. L’evidenza lapalissiana di quel giorno però, ci dice che il più forte nella corsa mondiale, era il baby Freddy Maertens. Ed è anche vero che il campionato del mondo di Barcellona, recitò sul debole carattere di Freddy un ruolo importante, facendolo sentire più insicuro e alla completa mercé di quelle tante mezze figure che, alla lunga, contribuiranno non poco alla contrazione della sua carriera. Ciononostante, per qualche anno, Maertens fu devastante. Nel ‘74 vinse 34 corse, 33 nel ’75, 52 nel ’76, 53 nel ’77: in sostanza solo Merckx, in quel lustro, gli era stato superiore. In quella mitraglia di successi, anche il titolo mondiale, conquistato ad Ostuni nel 1976, davanti a Francesco Moser. Nel 1977, dopo aver vinto alla grande la Vuelta di Spagna, prese il via al Giro d’Italia e sbalordì tutti con sette vittorie di tappa, ma arrivò la frazione del Mugello, proprio il giorno dopo la sua vittoria a Forlì. Sul celebre circuito motoristico, disputò una volata a colpi proibiti con Van Linden, la vinse, ma cadde fratturandosi il polso. Fu il colpo di grazia, la lesione non guarì più totalmente e molti attribuirono la causa di ciò all’uso di sostanze proibite, derivate dal cortisone. Il suo fragile equilibrio si incrinò. Tuttavia, nel 1978 riuscì ancora a vincere 18 corse, fra le quali l’Het Volk, la semiclassica di Harelbeke e la Coppa Agostoni, ma la sua squadra, la Flandria, venne sciolta e Freddy cominciò a correre dove e per chi gli capitava. In quel momento iniziò il suo declino agonistico, reso più grave e tangibile dalle crescenti difficoltà finanziarie e dalle pressanti richieste di arretrati da parte del fisco belga. In sostanza, si era fidato di gente con pochi scrupoli e ne pagava le spese. Nel 1979 e ‘80, si distinse….per i suoi ritiri, ma nel 1981, dopo esser stato ingaggiato dalla Boule d’Or, ritrovò il grande tecnico Guillaume Driessens che lo recuperò un poco e lo portò al Tour. Il bilancio di Freddy nella Grande Boucle fu ottimo: cinque vittorie di tappa, la maglia verde della classifica a punti e la garanzia di poter correre i mondiali di Praga. Qui recitò il suo canto del cigno, riconquistando la maglia iridata. Si trascinò ancora qualche anno per fare soldi conquistando, proprio nel suo ultimo anno un successo in un criterium. Freddy Maertens non è stato solo un grandissimo velocista, come qualcuno ancora sostiene, ma era fortissimo a cronometro, ed in salita, se voleva, poteva stare a ridosso dei migliori: quanto basta per farne un corridore in grado di vincere anche una grande corsa a tappe. Non a caso vinse una Vuelta. D’altronde, se Moser e Saronni, erano considerati completi, Maertens, aveva qualche ragione in più, almeno a livello potenziale, per esibire le stesse credenziali. Per me, ripeto, non è stato inferiore a loro. Le più belle vittorie di Maertens. 1973: Quattro Giorni di Dunkerque; Freccia St.Pieters Leuwe; Gran Premio Banca Roulers; Gran Premio della Schelda; Tour du Condroz. 1974: Giro del Lussemburgo; Giro dell’Andalusia; Campionato delle Fiandre; Giro delle Fiandre Centrali; Le XI Città; Gran Premio Scherens. 1975: Tours-Versailles; Freccia Vallone; Gand-Wevalgem; Paris-Bruxelles, Giro del Belgio; Quattro Giorni di Dunkerque; Giro dell’Andalusia; Gran Premio Banca Roulers; Gran Premio Scherens. 1976: Campionato del mondo; Campionato del Belgio; Gand-Wevelgem; Campionato di Zurigo; Henninger Turm; Amstel Gold Race; Quattro Giorni di Dunkerque; Campionato delle Fiandre; Gran Premio delle Nazioni; Trofeo Baracchi; Freccia del Brabante. 1977: Het Volk; Trofeo Laigueglia; Vuelta di Spagna (con 13 tappe); Parigi-Nizza; Giro della Sardegna: Settimana Catalana; Giro della Catalogna. 1978: Het Volk; Quattro Giorni di Dunkerque; Gren Premio d’Escaut; Harelbeke; Coppa Agostoni. 1981: Campionato del mondo, 5 tappe al Tour de France.
Considerazioni. Piuttosto piccolino, anzi per le misure che oggi si vorrebbero per i velocisti o i cronoman, decisamente piccolo (1,72 x 66-67 kg). Proporzionato nel fisico e con una compattezza muscolare che nei tempi attuali distruggerebbero con lavori sul fondo in grado di mortificare le fibre bianche che possedeva a iosa, Freddy, col suo corpo da scalatore, era un winnner velocistico di dimensioni stellari. Scelta di tempo, fiuto,
esplosività, punte di velocità degne di un pistard, lo facevano sprinter di razza come pochi. Provò a costruire con la Flandria, fra lo scherzo e il faceto, o come semplice esperimento, quella preparazione della volata di squadra che poi è stata definita “treno”, ma fu un carotaggio isolato, perchè il Maertens, le volate le faceva da solo, mortificando spesso coloro che potevano avere opportunità di vittoria sull’unica variabile dello sprint. Un Saronni, per molti aspetti, con maggiori doti sul passo, al punto di vincere il GP delle Nazioni, quando questa gara valeva tranquillamente l’odierno mondiale a cronometro. In salita più che la sua inadattabilità, assolutamente inesistente, fu una forma di disinteresse a fermarlo nei primi anni di carriera, ma dopo la Vuelta vinta, capì che poteva stare tranquillamente al passo dei migliori dell’epoca, anche lì. Purtroppo, la caduta al Mugello, ruppe completamente i suoi piani. Ciò che non andava in Freddy, non stava nel fisico eccellente, raro e superiore a tanti campioni che poi impreziosirono il loro palmares con raffiche di vittorie anche nelle corse a tappe, ma il suo carattere fragile, l’intontimento che lo accompagnava con la fama crescente, ed un’incapacità pressoche totale di riconoscere le persone verso le quali era giusto fidarsi, furono i suoi veri limiti. Un ragazzo, che non fu mai capace di crescere e di capire l’ambiente che lo circondava, ignaro delle distinzioni da farsi, inconsapevole dell’esigenza di dosare le parole al contatto con media che, nel Belgio del suo tempo, erano simili al calcio nostrano dell’odierno. L’incapacità di vivere le tante rivalità insistenti nel ciclismo del suo paese, spesso incentivate dal campanilismo e dalle culture delle varie zone, con quel distacco necessario per
non trovarsi schiacciato o deviato anche nei fatti di corsa. La sua esultanza tipicamente giovanile, con quel pizzico di sbruffoneria che non guasterebbe mai in linea teorica, ma pericolosa in certi contesti, quando a lato ci sono, nel suo caso, glorie storiche come Merckx e campioni in grado di aprire le porte alla leggenda come Roger De Vlaminck, o ad imprimere gli albi d’oro, potenzialmente o direttamente, come Godefroot, Van Springel, Leman, Verbeeck, Dierickx, Pintens, Walter Planckaert ecc. Aveva pochi, troppo pochi amici in gruppo, cominciando dai suoi connazionali. La stessa brutta e significativa giornata dell’esordio mondiale, a Barcellona, sul circuito del Monjuich, nel 1973, evidenziò fino a scolpirne i prosiegui, le difficoltà d’adattabilità di Maertens. Quando Merckx attaccò in salita, scaricando Gimondi e Ocana, Freddy, per dimostrare di esserci, di avere forza, di essere un campione, andò a prendere Eddy. Non lo fece con spirito cattivo, si lasciò semplicemente andare alla sua voglia di far vedere chi era, non rendendosi conto che in quel modo rimetteva in gioco l’italiano e lo spagnolo. Poteva starsene a ruota degli altri, era il più veloce e se costoro fossero riusciti a riprendere Merckx, sarebbero comunque stati in tre a scannarsi di lavoro e fatica, favorendo il suo già letale sprint. Non si rese immediatamente conto che la sua azione, oltre a renderlo inviso al numero uno del ciclismo mondiale, lo metteva nella non facile veste di corridore inaffidabile, anche fra gli altri grandi belgi (che non aspettavano
altro…). La prova di tutto questo si ebbe dopo, quando, a dimostrazione della sua considerazione verso Eddy, si rese disponibile a tirargli la volata (in fondo “il cannibale” dopo di lui era il più veloce), ma costui gliela fece pagare con gli interessi, giocandogli lo scherzetto che tutti videro. Da quel giorno, oltre a Merckx, Freddy si trovò tutti i belgi contro e se poi seppe vincere tantissimo, con ritmi da “Cannibale”, fu solo perché la natura gli aveva dato qualità seconde solo a quelle di Eddy. Anche quando tornò dopo la caduta del Mugello, col polso trasformato e dolorante che gli impediva di essere quello di prima, la voglia di batterlo, magari di umiliarlo, continuò a persistere fra i fiamminghi. Al resto ci pensò il suo carattere, soprattutto fuori dalle corse, che non raccolse nulla della prevedibile maturazione degli anni e delle esperienze consumate. Ma il suo talento era enorme, grandioso. Per me il più grande, per completezza dopo Eddy, del peculiare segmento degli anni settanta. Le sue cinque vittorie di tappa al Tour e quel mondiale di Praga, certo favorito dall’empasse tragico
che frenava la squadra italiana, grazie all’assurdità del dualismo Moser-Saronni, gridarono quanto fosse alato il piccolo belga dalle orecchie a sventola. Una rinascita che si concretizzò, anche per una delle poche felici scelte nel cammino di Freddy: ritrovarsi con un timoniere come Guillaume Driessens. Ci fosse stato costui, con continuità, accanto a Maertens, gli albi d’oro del ciclismo di fine anni settanta ed inizio anni ottanta, sarebbero stati diversi.
Ordine d’arrivo: 1° FREDDY MAERTENS (Bel-Flandria Velda) km 157 in 4h alla media di 37,765 kmh; 2° Giuseppe Saronni (Scic); 3° Bernt Johansson (Swe-Fiorella Mocassini); 4° Wladimiro Panizza (Scic); 5° Vittorio Algeri (GBC Itla); 6° Alfio Vandi (Magniflex Torpado); 7° Michel Pollentier (Bel-Flandria Velda) a 15″; 8° Bruno Vicino (GBC Itla) a 18″; 9° Walter Riccomi (Scic); 10° Roland Salm (Sui-Zonca Santini); 11° Gianbattista Baronchelli (Scic); 12° Giuseppe Perletto (Magniflex Torpado); 13° Josef Fuchs (Sui- Sanson); 14° Johan De Muynck (Bel-Brooklyn); 15° Dorino Vanzo (GBC Itla); 16° Claudio Bortolotto (Sanson); 17° Ruggero Gialdini (Magniflex Torpado); 18° Franco Conti (Zonca Santini); 19° Fausto Bertoglio (Jollj Ceramica) a 1’07”; 20° Bernard Thevenet (Fra-Peugeot Esso); 21° Pierino Gavazzi (Jollj Ceramica) a 1’51” segue il gruppo. Partiti 141, arrivati 79.