Giulia aspettava le sue vacanze estive sempre con grande trepidazione, benché ogni anno facesse le stesse identiche cose. Anzi, quell’estate era ancora più elettrizzata delle precedenti, come se sapesse che la pausa dall’odiato carcere scolastico, le avrebbe riservato qualche interessante sorpresa. I giorni che la separavano dalla partenza verso la località di mare dove la nonna Emietta aveva la casa, le sembrarono eterni. Alla fine, giunse il momento tanto agognato e, dopo un bacio frettoloso alla mamma e un abbraccio impacciato al papà, si trovò un posto su un vagone del treno diretto in Liguria. Trascorse tutto il tempo del viaggio a leggere e sonnecchiare. Quando scorse il volto rugoso della nonna tra quelli in attesa sulla banchina, il cuore balzò di gioia.
Si gettò giù dal treno e la raggiunse con le braccia spalancate: “Nonna!”
Emietta la strinse forte al petto: “Pucciola! Quanto mi sei mancata!”
“Anche tu, nonna.” Si avviarono verso la fermata degli autobus, mano nella mano: “Non vedevo l’ora di arrivare… lo sai che qui per me è come essere su un altro pianeta… posso dimenticare tutto… i compiti, i compagni che detesto, i professori che mi terrorizzano…”
“Va bene, va bene… non parliamo di quel liceo che ti fa diventare pazza. Ora sei qui e devi riposare, divertirti e soprattutto far felice la tua nonna! Non sai quanti regali ti ho comprato!”
Gli occhi di Giulia si illuminarono, mentre prendevano posto sull’autobus che da Alassio le avrebbe portate a Laigueglia. Fece per tempestare la nonna di domande, ma lei la fermò subito, alzando la mano: “Non dirò una sola parola.”
Scoppiarono a ridere e, quando arrivarono alla loro fermata, stavano ancora ridendo.
Emietta aveva un piccolo alloggio poco distante dal centro, molto accogliente e ben dislocato. Giulia adorava quella casa, come adorava quella località di mare. Laigueglia era una perla di raffinatezza, racchiusa tra Capo Santa Croce e Capo Mele, definita uno dei borghi più belli d’Italia.
Dedicarono i giorni successivi allo shopping, per lo più nel cuore del paese, il ‘budello’, che presentava una varietà di negozi, dal più artigianale e caratteristico, alle marche rinomate. Giulia obbligò la nonna a comprarle oggetti di ogni tipo, dalla bigiotteria di legno colorata, ai costumi e parei di tessuti indiani. Ed Emietta provava un certo palese compiacimento a soddisfare i desideri della nipote, benché già per tutto l’anno avesse provveduto a procurarle ogni sorta di accessori. Trascorrevano le calde giornate in spiaggia, sonnecchiando e raccontandosi aneddoti. Quello che Giulia amava di più di quel piccolo paradiso, era la sabbia fine della spiaggia, l’acqua cristallina e soprattutto il fondale basso, che permetteva anche ad una nuotatrice poco promettente come lei, di godere di lunghi bagni rilassanti.
Proprio durante uno di questi bagni, scorse Marco osservarla dalla spiaggia vicina.
Era l’unico amico che si era fatta in tutti quegli anni trascorsi nella stessa località estiva. I suoi genitori avevano una casa poco lontano da quella di Emietta, e lui e Giulia si conoscevano da quando avevano quattro anni. Diversamente, lei non era propensa ad approfondire altre amicizie. Le piaceva stare con la nonna. Ogni tanto conosceva qualche altra ragazza, che l’anno successivo non rivedeva più. Ma Marco lo ritrovava sempre, timido ed impacciato, a fissarla in quel suo modo che non nascondeva nulla.
Lei si volse a guardarlo con la stessa insistenza e il ragazzo divenne subito paonazzo.
Giulia non riuscì a trattenere un sorriso. Poi sventolò una mano: “Ciao, Marco.” Urlò.
Lui ora aveva il viso tutto viola con chiazze bianche. Fece qualche passo e quasi cadde nella sabbia, su una pista per biglie che era troppo elaborata per essere opera di un bambino, ma piuttosto del suo fantasioso papà.
Si fermò e alzò a sua volta la mano, con movimenti goffi: “Ci… ciao, Giulia.”
Lei non si mosse, mostrando di non volerlo raggiungere, superando il suo imbarazzo. Si volse invece verso l’orizzonte a guardare la Goletta Pandora, proveniente dalla Corsica. L’indomani si sarebbe tenuta la serata dedicata allo Sbarco dei Saraceni, una manifestazione spettacolare di rievocazione in costume di un avvenimento realmente accaduto nel XVI secolo. Giulia osservò il veliero di legno solcare le onde placide, che pareva non muoversi di un solo centimetro. Le venne da pensare a quanto avrebbe reso efficace la coreografia dell’evento. Poi si girò e tornò alla sua sdraio, con fare annoiato.
La nonna alzò gli occhi dal romanzo d’amore che stava leggendo: “Lo sai cosa penso, pucciola.”
“Sì, nonna… che Marco è un bravo ragazzo, che dovrei passare più tempo con lui, bla… bla… bla…” Rispose lei assente, asciugando i corti capelli castani. Il suo sguardo aleggiò oltre la fila di sdraio per soffermarsi su qualcosa che continuava ad attirare la sua attenzione.
Emietta seguì la direzione del suo sguardo. Individuò un giovane, con capelli neri ed occhi profondi. Aveva bei lineamenti, il sorriso di chi sa come farsi notare e il fisico di un ragazzo che sta per diventare un uomo. Un’abbronzatura uniforme e dorata, rendeva il tutto ancora più apprezzabile.
Emietta guardò Giulia da sopra il bordo rosso degli occhiali: “Marco è un bravo ragazzo, ma a te non interessa. Preferisci i bellocci, magari stupidi e arrogan…”
Giulia si volse a guardarla con gli occhioni spalancati. Gli stessi della madre: “Come sai che Lorenzo è stupido e arrogante?” La interruppe quasi indignata.
“Lorenzo?” Chiese Emietta, alzando un sopracciglio.
Giulia rispose, con il modo pungente che la distingueva. Atteggiamento che perdeva subito con sconosciuti o con chi si mostrava più forte di lei. Non molti, a dire la verità. “Ho sentito gli amici chiamarlo per nome.”
“Capisco. E quindi non lo conosci, questo Lorenzo.”
“No…” Gli lanciò un’occhiata: “Ma… a vederlo così… sembra un bravo ragazzo…”
“A vederlo così.”
Giulia sospirò: “Nonna… lo so che cosa vuoi dire. Tu sei vittima dei pregiudizi. Credi che Marco, il timido ed impacciato Marco, che ha mostrato di venerarmi dal giorno che mi ha vista, debba essere il buono. Lorenzo, invece, l’affascinante giovane che sa farsi piacere, è invece il cattivo, che mi farà il cuore a pezzi e lo getterà nella spazzatura, fuggendo a braccetto di un’altra ingenua come me.”
Emietta sospirò: “Certo io non avrei usato tante parole, come fai tu con la capacità ereditata da tua madre… ma il concetto che volevo sottolineare era proprio quello.”
“Ma nonna!” Ribattè Giulia con una nota di sdegno: “Tu che sei così moderna… come puoi lasciarti influenzare da stupidi pregiudizi!”
“A quattordici anni sembrano pregiudizi. Alla mia età, sono verità di vita.”
La ragazza sbirciò Lorenzo con occhi scintillanti.
Emietta si alzò dalla sdraio con una smorfia: “Tu cerchi il principe azzurro. Bello ed eroico. Come quando eri bambina.”
“Io sono una bambina e tu una bacchettona.”
“Sarà. Comunque non voglio discutere con te. Sei una testona, lo sei sempre stata. Devi sbatterci il naso, per capire che hai torto.”
Giulia non l’ascoltava più. Era completamente concentrata sul giovane Lorenzo che si spalmava la crema sul petto sodo. Poi una strana sensazione, la costrinse a togliere lo sguardo. Una sensazione che le chiuse la bocca dello stomaco. Una sensazione che non seppe descrivere, ma di certo non positiva.
Emietta se ne accorse: “Che c’è, pucciola? Non volevo mica offenderti.”
Lei si scosse turbata: “No… no… è solo che…” La guardò: “Ti va di tornare a casa, nonna?”
“Sì, per oggi di sole ne ho preso abbastanza. E ho un gran mal di testa.”
Il mal di testa torturò Emietta per tutta la cena e la costrinse ad andare a dormire, rinunciando alla sua passeggiata serale con la nipote. Così Giulia si diresse sola verso il budello, camminando sulla passeggiata con la testa piena di pensieri e gli auricolari dell’iPod piantati nelle orecchie. Pensava che sia la nonna, che i suoi genitori, soprattutto suo padre, l’accusassero troppo spesso di essere presuntuosa e di voler avere sempre ragione. Ed effettivamente, il più delle volte, aveva torto, perché era troppo giovane per conoscere il mondo meglio di loro. Eppure, come diceva la nonna, finchè non ci sbatteva il naso, lei non ammetteva di avere un muro di fronte. Era fatta così, non ci poteva fare nulla. Raggiunse il centro storico al suono di un’assordante musica rock. Si fermò vicino al molo, di fianco al parco giochi nella sabbia, ad osservare i bambini che giocavano allegri, correndo con i piedini nudi. La passeggiata erano gremita di gente. Laigueglia era in fermento per i preparativi della rappresentazione dello sbarco. La sera successiva, circa trecento figuranti si sarebbero dati battaglia da mare e da terra a suon di palline di gomma piuma, nello specchio acqueo antistante il Bastione. Un grandioso spettacolo pirotecnico musicale sul molo, avrebbe conferito realismo alla battaglia. Giulia spense l’iPod e osservò i tecnici affaccendati nei preparativi, quando la strana percezione di essere osservata la costrinse a girarsi per controllare la folla dietro di lei. Non scorse nessun volto conosciuto e sorrise dei suoi timori.
Ma una voce improvvisa alla sua destra la fece sobbalzare: “Giulia…”
Marco la stava guardando con i suoi occhi azzurri che scappavano ovunque pur di non rimanere in quelli di lei.
Giulia lo fissò un po’ sorpresa: “Marco… non ti avevo visto…”
Lui indicò le due torri campanarie della chiesa di San Matteo: “Stavo arrivando da laggiù… e ti ho vista qui… sola stasera?”
Lei si strinse nelle spalle: “La nonna aveva mal di testa.”
“Capisco.” Guardò gli addetti alle prove, impegnati a vagliare la qualità del suono e l’intensità delle luci. Scese un silenzioso imbarazzo, che Giulia si sentì costretta ad interrompere: “Cosa ci facevi dalla chiesa?”
Lui la guardò, forse davvero per la prima volta dritta negli occhi: “Adoro quella chiesa… mi piace la facciata… tutta così lavorata… è di ordine corinzio, sai? E il portale d’ingresso e… più in alto, il finestrone… ma in questo caso parliamo invece di stile barocco… e mi piace l’interno… l’affresco della cupola…”
Giulia lo ascoltava affascinata. Marco non poteva definirsi bello, ma aveva un volto dolce e occhi di un azzurro rassicurante. E la sua timidezza lo rendeva in qualche modo piacevole. Si trovò a pensare che Lorenzo non fosse in grado di raccontarle neppure mezza parola sui monumenti di Laigueglia. Si accusò subito di essere uguale alla nonna. Come poteva giudicare Lorenzo senza neppure conoscerlo?
“Ti sto annoiando, vero?” Chiese Marco impacciato.
“Annoiarmi? Oh, no… proprio il contrario. E’ molto interessante…”
“Davvero?” Una spolverata di rosso gli colorò le guance paffute da eterno bambino: “Allora vorrei dirti che l’oratorio di Santa Maria Maddalena…”
Ma ora lei non lo ascoltava più. Il suo sguardo era inchiodato su qualcosa oltre lui. Marco allora si voltò e il colore gli defluì subito dal viso. Lorenzo camminava disinvolto con un gruppo di amici, diretti verso il molo. Aveva una maglietta aderente, jeans sbiaditi, una bottiglia di birra stretta nella mano e il sorriso di chi ama ogni singolo istante della propria esistenza. Giulia se lo stava mangiavndo con gli occhi.
Marco sospirò: “Beh… è stato un piacere vederti. Adesso devo proprio andare.”
“Certo… anche a me ha fatto piacere vederti…” Rispose lei assente.
Non lo guardò neppure andare via. Con passo studiato, si mise a camminare verso il molo seguendo Lorenzo, ripiantandosi gli auricolari dell’iPod nelle orecchie, ma senza accendere la musica. Il ragazzo e i suoi amici si erano fermati sulla passerella di legno costruita a lato del molo. Ridevano, minacciandosi scherzosamente di farsi cadere in acqua. Lei passò oltre, osservandoli con la coda dell’occhio. Cercò di apparire indifferente, anche se il cuore le sfarfallava nel petto. Raggiunse i cancelli che sbarravano l’accesso al nuovo pontile, dal quale si accedeva al battello diretto all’Isola Gallinara.
Rimase davanti alle sbarre chiuse, indecisa sul da farsi. Poi di nuovo la colse la strana ma netta sensazione di essere osservata. Si voltò di scatto e sussultò. Lorenzo era dietro di lei, a poca distanza.
Sfoderò un sorriso accattivante: “Scusa non volevo spaventarti…”
Lei si tolse gli auricolari con gesti frettolosi. Mosse le labbra inaridite: “Io… non…”
“Sono Lorenzo. Sto nella spiaggia vicina alla tua…” Sorrise di nuovo, con studiata accuratezza: “… ti ho vista qualche volta…”
“Ah.” Fu l’unica cosa che riuscì a dire lei.
“Sì, con tua madre…”
“Mia… mia madre? Mia nonna, vorrai dire…”
“Tua nonna? Allora falle i complimenti…” La fissò: “Ma non mi hai ancora detto come ti chiami?”
“Giulia.”
“Bene, Giulia…” Indicò il cancello chiuso: “Stavi pensando di scavalcare?”
“No, io…”
Lui balzò sulle sbarre, noncurante della gente intorno a lui: “Io sì.” Saltò dall’altra parte. Poi allungò la mano verso di lei attraverso le sbarre: “Vieni?”
Lei lo guardò come se non avesse capito la lingua in cui le aveva parlato. Poi si lanciò un’occhiata intorno. Molti li stavano osservando, alcuni infastiditi, ma la maggior parte divertiti. Poco distanti, gli amici di Lorenzo li guardavano commentando ad alta voce, ridendo e alzando le birre. Tra loro, c’erano anche delle ragazze, che avevano tutt’altro che espressioni divertite. Giulia tornò a concentrarsi sulla mano che Lorenzo le tendeva e senza neanche rendersene conto si trovò dall’altra parte con lui. Si misero a correre fino alla fine del pontile, ridendo nella notte stellata. Raggiunsero il bordo fino all’attracco, ansimando. Poi rimasero in silenzio a fissare la distesa scura di fronte a loro. Giulia lasciò scivolare lo sguardo sulle onde nere. Il mare di notte la spaventava. In realtà era una gran paurosa, ma in particolare il mare di notte riusciva ad inquietarla più di tutto. Poteva immaginare ogni sorta di mostruosità nascosta in quelle acque nere. Sentì un brivido percorrerle la schiena. Improvvisamente una sensazione terribile le chiuse la gola, come piccola dita gelide intorno al collo.
Lorenzo sembrò indovinare il suo turbamento: “Qualcosa non va?”
Lei passò la mano sulle braccia ruvide per la pelle d’oca: “Non saprei…”
Lui strizzò l’occhio: “Hai paura degli omini in uniforme?”
Giulia lo guardò: “Gli… gli omini in uniforme?” Sorrise: “Beh, diciamo che non stiamo proprio rispettando le giuste norme comportamentali…”
Lorenzo annuì: “No, infatti. E’ questo il bello. Ma non voglio metterti in difficoltà… se vuoi torniamo indietro.”
“Sì.” Disse lei prontamente, incapace di descrivere l’angosciante sensazione che ancora la pervadeva. E la continua ed assurda impressione di essere osservata, come se le ombre avessero occhi per poterla spiare strisciando silenziose negli angoli nascosti.
Poco dopo si trovò sola a passeggiare verso casa. Ogni passo era accompagnato da una dolce melodia che aveva caricato sull’iPod. Lo sguardo era incollato alla forma arancione ed evanescente del Santuario della Nostra Signora delle Penne, la piccola chiesa a strapiombo su Capo Mele. Aveva lasciato Lorenzo con i suoi amici e, benché lui avesse insistito che passasse il resto della serata con loro, lei aveva declinato l’invito. Era turbata e non sapeva il perché. Superò il cimitero, superò la via che portava alla casa della nonna, superò la Suerte, con le sue musiche e luci psichedeliche e continuò a camminare ancora per un po’. Poi torno indietro, perché era già molto tardi e alla nonna bastava un nonnulla per farsi venire un attacco d’ansia.
Il mattino dopo, Emietta la chiamò qualche volta di troppo per obbligarla a scendere dal letto. Si trascinò in cucina e raccontò alla nonna dell’incontro con Lorenzo, evitando di accennare al fatto che avevano scavalcato il cancello di sbarramento al nuovo pontile e sottolineando invece che lui aveva creduto che lei fosse sua madre, piuttosto che sua nonna.
Così in spiaggia, Emietta sembrava guardare Lorenzo con un occhio molto più benevolo del solito. Lui, forse incoraggiato dai sorrisetti che la donna ogni tanto gli regalava, si avvicinò alla sdraio di Giulia: “Ciao…”
Lei non lo aveva visto sopraggiungere. Era concentrata sull’Isola Gallinara, l’enorme tartaruga immersa in un sonno eternamente cullato dal canto del mare. Subito cercò il suo pareo e, con movimenti imbarazzati, si cinse la vita: “Ah… ciao…”
Lui allungò la mano verso Emietta: “Buon giorno, Signora.”
Emietta la strinse compiaciuta: “Ciao… Lorenzo, giusto?”
“Sì.” Guardò Giulia: “Ci vieni stasera con me a vedere lo sbarco?” Chiese senza mezzi termini.
Lei spalancò la bocca. Di certo non si aspettava una domanda così diretta: “Io…” Lanciò un’occhiata alla nonna e si stupì di vederla pronta ad incoraggiarla con cenni del capo: “… io… sì… va bene.”
“Perfetto.” Rispose il ragazzo. “Alle nove e mezza dai cancelli del molo…” Strizzò l’occhio: “…quelli per il battello della Gallinara… ok?”
“O… Ok…” Confermò Giulia, un po’ titubante.
Lui tornò alla suo sdraio e Emietta guardò la nipote: “Chissà che forse sono solo pregiudizi…”
Lei non rispose. Era ancora incredula.
Il resto della giornata passò lento, con la nonna che la tempestava di domande e promulgava consigli su come avrebbe dovuto vestirsi. Ed effettivamente, fu molto difficile decidere l’abbigliamento giusto. Alla fine, dopo varie prove e un mezzo litigio con Emietta, optò per un vestito casto ma non troppo, colorato ma non troppo, abbinato a sandali bianchi con un tacco alto, ma non troppo.
Uscì di casa e raggiunse il molo in pochi minuti. C’era tantissima gente, particolare che ingenuamente non avevano preso in considerazione. Si fece largo tra la calca, per arrivare ai cancelli. Quando era ormai prossima, sentì una mano afferrarla. Si voltò sussultando e vide Marco che le stringeva il braccio: “Giulia… che incredibile fortuna incontrarti qui!”
Lei lanciò un’occhiata quasi disperata verso i cancelli. Non scorgeva Lorenzo nella folla accalcata lì davanti: “Marco… già…” Disse con un filo di voce.
Lui le strinse maggiormente il braccio: “Puoi venire con me, per favore?”
Lei si irrigidì: “Come? Dove?”
“In un posto… ho una sorpresa per te.”
“Come? Una… sorpresa? Ma io… io veramente…”
Lui le lasciò il braccio. Sembrava distrutto: “Oh, se avevi altro da fare…”
Lei non ebbe cuore di dirgli la verità: “No… è solo che…”
Marco si strinse nelle spalle: “Comunque ci vogliono solo pochi minuti…”
“Solo pochi minuti… va bene, allora vediamo questa sorpresa.”
Lui si illuminò. Gli occhi erano così accesi e il sorriso così spontaneo che quasi la commosse: “Davvero? Vedrai, rimarrai senza parole.”
“Ah si?” Per un secondo si dimenticò completamente di Lorenzo, incuriosita da Marco. Poi iniziò a seguire l’amico che si allontanava dal molo, continuando tuttavia a voltarsi verso i cancelli. Ma di Lorenzo neanche l’ombra.
Marco la condusse fino alla Chiesa di San Matteo. Si fermarono di fronte al portone d’ingresso.
Giulia guardò la porta, decisamente infastidita poiché era evidente che non fosse una questione di pochi minuti: “Dobbiamo entrare qui dentro?”
Il vento tra le foglie delle palme produceva uno strano rumore. Decisamente sinistro.
Lui le prese la mano: “Non qui…” La condusse in un vicolo laterale, fino ad una piccola porta secondaria da cui si accedeva all’oratorio di Santa Maria Maddalena, annesso direttamente alla chiesa.
Giulia fece una smorfia: “Ma possiamo farlo? Dico… entrare così…”
Lui le mostrò uno strano sorriso: “Non mi sembra che tu segua sempre le regole…”
Lei fece per chiedere spiegazioni, ma lui aprì la porta e la spinse dentro. L’oratorio era deserto e da fuori giungeva il rumore delle automobili che transitavano sull’Aurelia. Tenendola per mano, Marco la condusse in una sorta di stanzetta laterale, non senza che lei potesse lanciare uno sguardo al grande crocifisso, con ornamenti d’argento alle estremità dei bracci e un dipinto rappresentante una donna penitente e afflitta, senza ombra di dubbio la Maddalena. Nella stanzetta, c’era una piccola porta un pò malconcia. Marco ci arrivò di fronte, sempre stringendo la mano di Giulia.
Giulia lo guardò prima perplessa. Poi irritata: “Ma dove mi stai portando…”
Lui si voltò a guardarla: “Lo vedrai.”
Lei scorse nei suoi occhi una luce che non gli aveva mai visto prima, che cambiava l’azzurro del suo sguardo privandolo della tenerezza che gli era propria.
Aprì la porta e un odore polveroso di tenebra li investì.
Giulia fece un passo indietro, liberandosi dalla sua presa: “Senti, io non credo sia stata…”
Lui la afferrò per un braccio, la trascinò con sé all’interno e sbarrò la porta: “Chiudi la bocca.”
Giulia sentì il respiro morirle nei polmoni. La paura la avvolse come una coperta scura, paralizzandola. Marco la trascinò giù per i gradini di una scricchiolante scala di legno. Arrivarono ad una specie di nicchia scavata nella parete, grande abbastanza da contenere un tavolo di pietra. Tutt’intorno erano state sistemate candele accese. Sul tavolo, era disposto una sorta di vecchio dipinto, raffigurante un uomo. Indossava gli abiti saraceni che aveva visto riprodotti durante le manifestazioni dello sbarco degli anni precedenti. La cosa più inquietante era lo sguardo dell’immagine. Uno sguardo truce, venato d’odio. E di qualcos’altro. Qualcosa di diabolico. Giulia si guardò intorno con occhi sbarrati. Il cuore iniziò ad agitarsi impazzito nel petto, come un uccello imprigionato in una gabbia.
Deglutì e le sembrò di ingoiare vetri: “Marco… ma… ma cosa…”
Lui la colpì in faccia e lei cadde al suolo. Scoppiò a piangere.
Marco la fissò dall’alto: “Qui non ti sente nessuno.”
“Perché… perché mi fai questo?”
“Io sono un perdente, Giulia. Guardami. Non vincerò mai. Non sarò mai un guerriero… come lo furono i saraceni… come lo fu il corsaro Dragut…” Alzò lo sguardo verso il dipinto e Giulia fu sicura che in quegli occhi azzurri, che le erano parsi sempre tanto innocenti, ci fosse la stessa luce diabolica che animava il quadro: “Lui era un dominatore! Giunse qui e depredò la città… senza che nessuno potesse opporsi alla sua violenza! Lui era un dio! Non un essere insignificante ed inutile come me!”
Giulia strinse le gambe al petto, singhiozzando miseramente.
Lui la indicò: “Ma posso cambiare le cose.”
“C… come? Come puoi?” Chiese lei con voce spezzata.
“Con un sacrificio. Questa notte in onore di Dragut, nel cuore di questa città che vide lo splendore della sua forza, in questo luogo sacro, io donerò a lui il tuo sangue, sangue di una vergine, lo stesso di cui lui si appropriò allora e che lo rese ancora più forte e terribile! E in cambio, riceverò la stessa forza, non dovrò più vergognarmi di me stesso, supplicare per un sorriso o un’attenzione…” Le rise in faccia: “Non dovrò più nascondermi nell’ombra! Anche io sarò un dominatore!”
Giulia sgranò gli occhi. Alzò le mani tremanti: “Marco… non puoi parlare sul serio… non puoi…”
Lui estrasse qualcosa dalla tasca del giubbotto di jeans. E quando lei vide cosa aveva in mano, si mise a urlare.
Marco alzò il coltello e le luci delle candele scintillarono sulla lama: “Brava, urla. Così potrò rubare tutta la tua forza vitale.”
Si avventò su di lei.
Giulia chiuse gli occhi, annullando ogni pensiero.
Sentì un tonfo.
Poi una voce: “Giulia…”
Spalancò gli occhi. Lorenzo la guardava sconvolto. Stringeva un oggetto in mano. Una sorta di calice argentato, sporco di sangue. Il corpo di Marco giaceva immobile ai suoi piedi. Lasciò cadere il calice. Poi allungò la mano verso di lei, come aveva fatto attraverso le sbarre dei cancelli sul molo centrale.
Lei la prese e si alzò, troppo terrorizzata anche solo per respirare.
Lui allora la aiutò a salire sulla scala pericolante. In un attimo, erano fuori dall’oratorio, con le dita tremanti intrecciate.
Raggiunsero il budello con volti così stravolti da essere irriconoscibili. La gente li spintonava da ogni dove, ma loro non si accorgevano di nulla.
Non riuscivano a parlare, neppure a guardarsi.
Giulia tremava sotto shock.
Allora Lorenzo la attirò a sé: “E’ tutto finito.”
Lei annuì. Ma non poteva smettere di tremare.
“Ora andiamo a cercare un omino in uniforme.” Disse lui, alzando un angolo della bocca.
Riuscì a strapparle un sorriso.
Poi lei lo guardò dritto negli occhi: “Io… io non posso credere che sia… sia successo davvero…”
Lorenzo l’abbracciò. Tremava anche lui: “Lo… lo so. Neanche io… ti stavo cercando e ho visto che ti trascinava nel budello…”
“Per fortuna… per fortuna che c’eri tu… non posso credere… non posso credere che sia successo davvero…”
Lui la strinse di più.
I fuochi d’artificio esplosero nel cielo e loro urlarono, tanto erano tesi ed impauriti.
Alcuni si voltarono a guardarli, sorridendo.
Giulia allora gli schiacciò il volto contro il petto, avvertendo il battito violento del suo cuore.
Chiuse gli occhi, pieni di lacrime.
Aveva solo quattordici anni e spesso aveva torto.
Non conosceva così bene il mondo.
Ma questa volta aveva avuto ragione.
L’aveva trovato.
Non poteva sapere se si sarebbe avverata la formula: ‘e vissero per sempre felici e contenti.’
Ma l’aveva trovato.
Un principe in carne ed ossa.
E tutto il resto, erano solo pregiudizi.